26 aprile 2016
Trattare con i ragazzi argomenti come l’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti, il bullismo, la violenza come strumento identitario, di consenso, di riconoscimento sociale non è semplice; i giovani si schierano sulla difensiva, come a voler esprimere che non c’è bisogno di conoscere ulteriormente questi temi, eppure non ci vuole un’attrezzatura di recente generazione per determinare chi ha familiarità con una canna, chi con qualche beverone, chi con la prepotenza tenta di travestirsi ogni mattina prima di entrare in classe.
C’è chi assiste alla lezione con un’aria di sfida, chi è in cerca di una pacca sulla spalla, chi desidererebbe sentirsi dire che la vita è bella e bisogna avere fiducia, anche quando è calpestata dalla volontà di non averne, perché ogni volta si pensa di rimanere fregati, e quando si è giovani un decalogo non scritto recita di non dare mai le spalle, se non a qualche amico all’angolo del quadrato; gli sguardi non hanno maschere a sufficienza per tacere un certo fastidio nel esporsi su temi e difficoltà così difficoltosi, ingombranti dirimpettai per quanti rimangono a difesa del proprio ruolo di famosi per forza, per la paura di rimanere impigliati nella gabbia degli stupidi.
Non c’è solamente l’urgenza dell’approvazione e del riconoscimento nel mucchio, c’è qualcosa di più nello sguardo in alto e in quell’altro tenuto basso, c’è urgente la ricerca di una motivazione, di un quesito comprensibile, di una risposta che non sia travestita di funzionale.
Forse è importante spendere più tempo e pazienza per essere un contrasto efficiente alla follia di tutte le droghe, evitando gli imbonimenti destinati a non dare frutti, rispetto a un percorso di confronto e di relazione, che reciprocamente non teme le manchevolezze.
La droga non è solo un problema della società contemporanea, è dipendenza che addomestica le coscienze, attraverso la promessa-menzogna di zittire il vuoto-male che ci portiamo addosso, un escamotage ingannevole per scrollarci di dosso i rischi e i dazi da pagare, ma imboccato il vicolo cieco, c’è l’ostacolo insormontabile a spedirci al tappeto.
La pretesa di raggiungere lo scopo senza fatica affidandoci alla filosofia derivante da una società bullista, alimenta illegalità e violenza. Quando si procede sempre in picchiata, sistemati su una discesa immaginaria, non ci si accorge di essere puntualmente fermi, per cui disgrazia, dolore e disperazione non sempre sono spiegabili, ma stanno alla base di ogni solitudine, di ogni assenza.
L’arma della violenza, dell’omertà, del sopruso, degenera in stile di vita, mentre l’atteggiamento teatralmente irresponsabile convince che la colpa, il problema, è sempre cause altrui, mai riconducibili a se stessi.
Quando si hanno di fronte tanti giovani in punta di piedi o con gli anfibi, occorre gareggiare pulito, raccontare il proprio vissuto fino in fondo, condividendo le emozioni di un cuore in tumulto, ma senza manipolare la loro testa e il cuore per tentare a tutti costi la meta.