16 maggio 2016
Solitudine e percezione d’isolamento provate da molti adulti aumenterebbero del 14% le probabilità di morire precocemente, oltre ad diminuire notevolmente le difese immunitarie corpo umano.
Sebbene i ricercatori conoscano da qualche tempo che la solitudine, e in particolare la sensazione d’isolamento dalla società avvertita da molti adulti, hanno ripercussioni importanti sulla salute dell’individuo, i meccanismi cellulari che sono imputabili di questo fenomeno non era fina ad ancora chiara. Qualcosa in più al riguardo lo suggerisce oggi uno studio condotto da John Cacioppo dell’University of Chicago e il suo team di psicologi, che ha presentato come la solitudine possa portare a un aumento del 14% delle probabilità di morte prematura e ha prodotto luce su come faccia attivare delle reazioni psicologiche in grado, essenzialmente, di farci ammalare.
La ricerca, pubblicata su Pnas, mostra che l’isolamento porta il corpo a rispondere con un tipo di reazione chiamata “combatti o fuggi” un funzionamento psicologico che è abitualmente usato dall’organismo quando si coglie un pericolo immediato. Questo, alla lunga, può danneggiare la produzione dei globuli bianchi.
Già in studi precedenti era emerso il collegamento tra la sensazione di isolamento e un fenomeno chiamato Ctra (Conserved Transcriptional Response to Adversity), che consiste nell’aumento dell’espressione dei geni coinvolti nelle irritazioni e una diminuzione dell’espressione dei geni che invece si popolano di combattere i virus. In breve, le persone isolate hanno una risposta immunitaria meno efficiente di quelle che invece non si sentono sole.
I ricercatori hanno studiato come gli esseri umani e i macachi Rhesus (Macaca mulatta), una specie di primati molto sociale, affrontano la solitudine. In particolare gli scienziati hanno analizzato l’espressione dei geni nei leucociti, cellule del sistema immunitario che si occupano di proteggere il corpo umano da batteri e virus. Come previsto, i leucociti degli esseri umani “solitari” esibivano il fenomeno del Ctra. I ricercatori si sono anche accorti che la minore produzione di cellule antivirali e la solitudine sembrerebbero avere una relazione di reciprocità, ed entrambi possono diffondere l’altra nel tempo (la solitudine induce il fenomeno del Ctra, che a sua volta aumenta la sensazione d’isolamento nell’organismo affetto e così via).
Il team ha in seguito studiato gli svolgimenti cellulari che collegano la vita sociale alla produzione di leucociti nei macachi della California National Primate Research Center, in specifico di quelli che erano stati classificati come isolati dal gruppo. Come gli esseri umani solitari, anche le scimmie isolate presentavano attività Ctra, oltre che ad alti livelli di noradrenalina, un neurotrasmettitore che segnala la presenza della reazione “combatti o fuggi”, nel sangue. In particolare la noradrenalina è in grado di spronare le cellule staminali del sangue presenti nel midollo osseo per ingrandire la produzione di un particolare tipo di cellule immunitarie ancora immature, i monociti, che presentano un basso livello di espressione di geni antivirali.
È proprio questo, secondo gli scienziati, che produrrebbe le conseguenze per la salute: in un modello d’infezione virale testato sulle scimmie, la bassa manifestazione di geni anti-virali nelle cellule del sistema immunitario degli animali “solitari” permette, infatti, al virus di espandersi più in fretta nel sangue e nel cervello.
In conclusione, i risultati supportano un modello in cui la solitudine porta a una risposta “combatti o fuggi” dell’organismo, che aumenta la produzione di monociti immaturi che a loro volta, non sono in grado di lottare le infezioni virali come dovrebbero. A sua volta, un maggior numero di monociti immaturi è in grado di “propagare” la sensazione di solitudine nel tempo, accrescendo i rischi per la salute.